Contributi testuali

"Altrovarsi" non è perdersi, di Francesco Imbimbo (artista)

Potremmo affermare che la propensione ad assentarsi rappresenti la situazione inaugurale di ogni fare artistico. Quello che il deserto è per il profeta, per l'artista è l'inclinazione ad appartarsi, ad astrarsi dalle incombenze della vita di tutti i giorni per coltivare uno spazio mentale che ci figuriamo fertile e immaginifico. E ciò non vale solo per il ceppo surrealista: cosa ne sarebbe, ad esempio, di un pittore come Monet se pretendessimo di sradicare il suo percorso di ricerca dal suo giardino privato, e così facendo dal presupposto di un'altra arte, quella del giardinaggio? Gli artisti, dunque, anche quelli che non abitino "tane kafkiane", soffitte polverose o celle monastiche, prediligono il ritiro e sono dotati di un fiuto infallibile per quei ricoveri confortevoli, protettivi almeno quanto ricreativi, dai quali muovere alla conquista di regioni inesplorate dell'immaginario; tale disposizione esplorativa è imprescindibile, perlopiù vissuta come stimolo per nuove realizzazioni. O almeno così è stato per lungo tempo, fintanto che l'ozio contemplativo incontrava nel gesto artistico il suo sbocco naturale e risolutivo, finché l'esorcismo di un demone personale sanzionava la cesura di una vicissitudine psichica.

Oggigiorno gli equilibri si sono in un certo senso invertiti: il raccoglimento, la macerazione in uno stato cogitabondo non trae più la sua giustificazione dal raptus poietico che in quella cornice si dovrebbe scatenare. È divenuta piuttosto l'asse portante di ogni percorso di creazione/fruizione. Vederci respinti al cuore di noi stessi può perfino rivelarsi un'esperienza frustrante; lo è inevitabilmente per un pubblico privo di specifiche attrezzature intellettuali, abituato ad un'interazione più immediata col manufatto artistico. È doveroso constatare come l'arte, proporzionalmente all'alleggerirsi dell'armamentario tecnico, come all'obsolescenza dei canoni, e ancora all'assottigliarsi dello smalto formale (talora financo al contrarsi della sua dimensione esperienziale), si proponga sempre più come un disadorno congegno per pensare; si esponga programmaticamente a ipotesi di lettura, veicolando un pensiero destinato a riverberare/proliferare nella mente dello spettatore. L'arte di ciascuno coincide così innanzitutto con una visione del mondo capace di proiettarsi oltre l'oggetto artistico, sia pure a partire da esso. Questo, più che l'approdo di un travaglio che riguarda l'autore, sembrerebbe il principio di una storia interpretativa che interpella parimenti il suo pubblico. È soprattutto dalla contemporaneità che l'opera non si presenta tanto come il frutto di un'elaborazione intellettuale dell'artista confinata alle umbratili alchimie d'atelier, ma piuttosto come una sapiente ragnatela di significanti (testo o anche solo "pre-testo") offerta alle traiettorie di quella merce sempre più rara che va sotto il nome di attenzione; insomma un'esca d'autore per intercettare e "in-trattenere" risorse spirituali in via di estinzione.

Non è un caso - mi azzardo a dire - se, in un'epoca segnata da un folle (quantomeno nevrotizzante) disfrenamento dei ritmi e analogamente propensa a sperimentare nella tossica saturazione degli spazi mentali l'estrema frontiera di quello che fu il colonialismo, l'arte ha assunto la funzione di presidio culturale irrinunciabile a salvaguardia del "tempo del sogno", nonché di esercizio utile per riarticolare sacrosanti spazi di riflessione. Ed è per l'appunto il tempo rubato a vantaggio di questo "divino giuoco" il vero e unico lusso di cui sia depositario l'artista, peraltro quotidianamente minacciato da infinite forme di alienazione; a cominciare dallo stesso mercato dell'arte, che preme indebitamente per snaturarlo e convertirlo alle medesime logiche della catena di montaggio. Mentre seguitiamo a fondare il patto sociale sulle mitologie di un lavoro che latita, quelle "cicale" degli artisti si ostinano a raccontarci una storia diversa: avranno anche un'infinità di difetti, ma nessuno meglio di loro sa misurare il potenziale dell'attività onirica. Nel loro dignitoso disagio essi custodiscono una verità che la società ha dimenticato o rinnegato: il nostro lavoro sarà proficuo soltanto se prima avremo lasciato lavorare i nostri sogni per noi.

Ci è toccato in sorte di abitare - ahimè! - da semi-clandestini (o dissidenti) i parossistici scenari del "presenzialismo universale". Per un bizzarro fenomeno di fototropismo innescato dal proliferare degli schermi, molti di noi ormai vegetano come piante d'appartamento affacciate alle voraci finestre del mondo digitale: ebbene, coloro che vivono on-line sono ancora da considerarsi presenti? e innanzitutto presenti a che cosa? Mai nella Storia il concetto di presenza era stato meno consistente. Avvinti nella trance ipnotica di questo sortilegio, incediamo mano nella mano, eppure senza sfiorarci, in un festival permanente degli spettri danzanti, sperimentando stati dell'essere che neppure Dio avrebbe osato concepire. E allora, quando saremo stanchi di fingerci l'ombra di noi stessi, d'essere identificati con lo spreco di tracce che insistiamo a seminare nel web, sarà forse la realtà aumentata ad offrire una sponda al nostro bisogno d'esperienza? È lì che rieducheremo i nostri sensi atrofici? Sguinzaglieremo per il metaverso i nostri avatar come ubiquitari sonnambuli in quel limbo, quella terra di mezzo in espansione che divarica ogni giorno di più gli antichi rassicuranti confini tra la materia e lo spirito?

Sembrerà un paradosso, ma al giorno d'oggi, l'assenza, purchè non la si confonda con sterili atteggiamenti snobistici, rischia di attestarsi come la forma più efficace di impegno e ribellione; o almeno come l'unico varco attraverso il quale possa manifestarsi qualcosa di radicalmente altro. Quanti "treni" dovremo perdere per andare realmente da qualche parte? A quanti "like" siamo disposti a rinunciare per maturare il privilegio di una personalità difforme? Perché se l'indifferenza a suo modo uccide, anche un eccesso di attenzione soffoca, nondimeno il "fiat lux!" dei riflettori a volte mortifica. E ciò che risparmia comunque avvolge in una luce equivoca.

Sarà sufficiente transitare davanti all'iconica gradinata di Redipuglia e porgere l'orecchio all'algida retorica della morte che lapidaria risuona da quel Golgota di pietra per essere sorpresi dalla consapevolezza di una verità persino sconcertante: gli unici a rispondere immancabilmente "presente!" all'appello del dovere sono i caduti delle guerre, e in generale quelli ben più numerosi dell'esistenza. Viceversa, tutto ciò che respira o cova un barlume di vita interiore commercia in qualche modo con l'assenza, con la reverie, coi riti della sospensione, quello "Shabbat dell'anima" capace di ri-allacciare la finitudine del nostro agire, sempre più dissipata nei corto-circuiti dell'"iper-connettività orizzontale", alle ispirazioni di una Vita trascendente. Se avremo saputo opportunamente assicurare le nostre vite a quell'altrove, saremo sacrificati ugualmente, questo è certo, ma la morte ci troverà ancora vivi, o magari - chi lo sa? - potrebbe non trovarci affatto.

Fantastico di riandare sui banchi di scuola, quegli stessi banchi dove le esuberanze di un'immaginazione irrequieta, che la monotonia di una lezione aveva invano cercato di contenere, dovevano aggrapparsi a una matita e così, cavalcando uno spontaneo moto d'evasione, risvegliare i primi germogli di un talento creativo. Era ovviamente solo l'inizio di un cammino; la stessa pratica artistica sarebbe divenuta "maggiorenne", avrebbe conosciuto a sua volta le esasperazioni della disciplina, strutturandosi in un metodo di lavoro. Nondimeno sono convinto del fatto che, ove questo incontro non fosse avvenuto in maniera così naturale, difficilmente mi sarei rivolto a quel confidente così spesso nel corso degli anni. Col senno di poi, forte del bagaglio di sfide che ancora ignoravo si sarebbero avvicendate, sarei alquanto felice di rettificare a posteriori la mia posizione ed apporre di mio pugno sul registro la certificazione della mia "assenza".

Arte e follia, di Guillermo Giampietro (artista e educatore)

Abbondano nella storia gli esempi dei contatti, delle contaminazioni, del destino comune tra quello che chiamiamo arte e follia. Dai tempi remoti, artisti, artisti folli e folli, si sono incontrati aprendo porte nell'inconscio, il territorio comune, che li rispediva dagli abissi identificandoli come tali. Shakespeare, Baudeleire, Lautreamont, Rimbaud, Van Gogh, Artaud, Trakl, i surrealisti e tanti altri hanno attraversato o vissuto questi varchi aperti nell'ignoto, lasciandoci una cultura profonda e critica che ci aiuta a risolvere un malinteso sociale, concettuale e pratico che si perpetua nel tempo.

La logica del linguaggio nella sua continua meccanica di abbreviazione, a quanto pare, indispensabile per l'incontro possibile e performativo tra tanti "altri", ci porta a ingabbiare e separare nei ristretti spazi di quello che si presenta e impone come senso comune, due concetti come arte e follia, etimologicamente ed epistemologicamente ben poco riducibili a quelle località d'investimento.

È forse frutto di un'insistenza presuntuosa e finalistica il continuare a pretendere definizioni e o a istituzionalizzare, in modo di credenza, il rapporto tra ciò che pretendiamo che rappresentino. Perimetrale, sempre, un compito destinato all'insuccesso. Insuccesso che fa emergere pregiudizi, malessere, false separazioni, pietismo, stigmatizzazione, controllo.

Le istituzioni (totali) che regolano gli incontri tra questi flussi indefinibili presentandoli o nascondendoli al mondo, hanno le loro fondamenta saldate in tali pregiudizi. Si continua a obbedire il monito conservatore di separare "l'arte dei matti" dall'arte "dei normali". I due mondi si possono incontrare seguendo solo le regole e definizioni che il mercato e la cultura dominante impongono all'istituzione, sia essa manicomiale, clinica o museale. Vita e creatività vengono ancora parcellizzate in vecchie e stanche categorie sprofondate in pratiche inerti, burocratiche, chiuse.

La società del controllo e la disciplina, incurante della sua disfatta storica, scientifica e culturale, continua a imporre i suoi stagnanti sistemi di potere e distribuzione.

Per fortuna non sempre è così.

Il lavoro iniziato da Franco Basaglia in Italia, configura un'importante rivoluzione sociale e politica contemporanea praticamente concretizzata che ribalta ontologica e praticamente la situazione.

In essa non esistono paradigmi di separazione, l'altro, il pazzo, il marginale, l'artista, lo psichiatra, l'infermiere, l'operatore sociale sono parte di un modo di vivere, comunitario, senza pregiudizi né gerarchie. Dove l'assemblea e il fare collettivo permanente de costruiscono l'istituzione, la sua logistica, la sua inerzia.

Una delle più grandi intuizioni di Franco Basaglia e la sua equipe fu quella di fare entrare l'arte, gli artisti e la cultura nel processo di de manicomializzazione e de istituzionalizzazione della salute mentale. Se tutto rimaneva nelle mani solo degli psichiatri e del personale sanitario, nonostante le buone pratiche, la stigmatizzazione e il contenimento potevano ritornare dalla porta di servizio.

Questa irruzione politica e culturale dell'arte, non fu orientata alla progettazione di un ruolo terapeutico particolarizzato (quello che possiamo interpretare come arte terapia) se no a un grande cambiamento della percezione della complessità sociale nella quale s'iscrivono e vivono queste problematiche. Non esiste più un'arte dei matti e un'arte dei normali, l'esperienza pratica ci porta a un interscambio di idee, pratiche e saperi liberati dagli stigmi e i modi aggrappati al passato, verso un incontro che apre nuovi orizzonti tanto scientifici quanto culturali. Arte, vita, follia, scienza, inconscio, si avvicinano sempre di più, dissolvono le barriere del pregiudizio e dell'auto stress individuale e sociale.

Non si tratta di coprire o anestetizzare la follia con l'arte, ma di generare le tecniche attraverso le quali la follia partecipi attivamente dell'opera, opera che esce dai chiostri e si confonde con la vita, che crea altre realtà e ci chiama alla sua esplorazione senza che esistano separazioni né pedaggi in questo viaggio.

La follia non deve essere confinata nella diagnostica della sofferenza psichica e nell'espressione del suo patetismo. La follia è parte di tutti noi cosi come la fragile ragione che ci permette tanto di sopravvivere come di distruggerci.

Le pratiche nate da questa consapevolezza promuovono la riproducibilità della sua potenza creativa incontrandosi con le tecniche e la sperimentazione artistica. La follia creativa non viene protetta bensì invitata a prodursi, a essere nel mondo attraverso l'arte è l'incontro con l'altro.

In questo tipo di pratiche non si sostiene nessun protocollo terapeutico, nessun tipo di sanificazione programmata verso un risultato, è la libertà di esistenza che le attraversa come la più ovvia delle giustizie, quella che le fa terapeutiche.

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